FRANCESCO PAOLO BORAZIO, LU TRAJONE ED ALTRI MITI.


Nonostante circolassero frammenti del poema popolar fantastico in vernacolo “Lu Trajone”, il testo integrale  scritto da Francesco Paolo Borazio, non era stato ancora pubblicato. Almeno sino al 1977 nessuno prima di allora aveva pensato di farne una dignitosa pubblicazione, né tra le istituzioni né tanto meno tra intellettuali e sodali del poeta di San Marco in Lamis.  
Si trattava dopotutto di un racconto di ingegno formidabile per le tante trame e i riferimenti allegorici contenuti nel testo peraltro intrecciati sullo sfondo di una valle molto familiare nell’immaginario collettivo. Francesco Paolo Borazio, il cavapietre autodidatta, che aveva scritto un poema epico sulle pagine di un quadernetto di scuola, intendeva non solo raccontare una storia di amore disperato, ma anche di mettere in evidenza, attraverso il racconto dei due fuggitivi innamorati, i vizi e le virtù di una comunità chiusa tra le montagne di una regione impervia. Lu trajone, il dragone mostruoso diventa quindi la metafora dei nostri incubi comunitari accanto alle nostre paure ancestrali che da sempre ci impediscono di guardare oltre gli orizzonti, che peraltro ci sono preclusi fisicamente. Credo che questo avrà pensato lo scrittore sammarchese quando ha messo nero su bianco le vicende di Vela e Seppantonio, svelare cioè il carattere peculiare (direi fondante) che ci appartiene e ci contraddistingue come comunità. Non male per uno scrittore autodidatta che ha appreso sui pochi testi scolastici il necessario che gli è servito per mettere in cantiere quest’opera dai contorni paradossali illuminati oltremodo da un linguaggio semplice soltanto in apparenza quando, al contrario, investe d’autorità una scrittura e un mondo popolare in cui la parola dialettale conquista il centro della scena avendole affidato un compito, uno stile e una forma che serviranno alle generazioni successive per confrontarsi su basi strutturali condivise. Una novità e una modernità di sorprendente attualità.
D’altra parte alcune schegge del racconto di questa figura mitologica, provenienti dalle nebbie di un passato remoto arcaico, oralmente tramandato, sono sempre circolate in paese. Hanno accompagnato nella paura la storia di intere generazioni di sammarchesi. Il dragone come spirito immutabile e posto a guardia delle nostre paure è sempre stato il golem a cui abbiamo affidato le nostre angosce e i nostri timori nei confronti di un essere orribile che nessuno peraltro aveva visto mai ma che ugualmente incuteva spavento e terrore. Un demone fuggito dall’inferno a cui un bel giorno il popolo si ribella, diviene temerario, gli dà la caccia come nel finale di un film gotico spinto dalla forza disperata di una comunità armata di forconi che vuole salvare a tutti i costi dalle sue grinfie la coppia di giovani che il serpente che “Teneva sette pede cu’ sett’ogna ammulate e pezzute come spate” ha rapito. Ma giunti nella valle di Stignano, il luogo dove si sospetta che il dragone dimori, non troveranno traccia del terribile mostro tentacolare < con sette teste> bensì i giovani ragazzi impauriti che dovranno raccontare tutta la loro verità. L’epilogo avrà un retrogusto amaro, la tragicomica vicenda de lu trajone dimostrerà tutta la sua inconsistente e disarmante fragilità e ciascuno farà ritorno al proprio quotidiano.
Per avere una conoscenza organica del poema vernacolare dobbiamo aspettare il 1977 quando i giovani professori Antonio Motta, Cosma Siani e Michele Coco, con la complicità di Filippo Pirro, illustratore preciso e allegorico, e la presentazione dell’accademico Francesco Sabatino, ne appronteranno una edizione completa, inaugurando così anche una collana letteraria molto proficua. Nessuno sino ad allora ci aveva mai pensato, neanche sotto forma di cartolina illustrata con stralci testuali e disegni appropriati tali da rendere seducente una storia d’amore e di coraggio vissuta tanto tempo fa in questa valle incantata.
Luigi Ciavarella



Francesco Paolo borazio anni trenta.
 




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