COME SCOPRIMMO I DEEP PURPLE.

Abbiamo scoperto i Deep Purple con “Black Night”, il micidiale singolo (che conteneva sul retro un altro pezzo forte come “Speed King”) credo nell'estate del 1970, sulla scia di un genere (l'hard rock) che era improvvisamente esploso in tutta Europa e di conseguenza anche in Italia. Prima di quella scoperta a 45 giri credo che nessuno conoscesse il loro passato. Per esempio nessuno immaginava che prima c'erano stati addirittura altri quattro album (da “Shades Of” al “Concerto For Orchestra”), il successo di “Hush” e quant'altro.

Tutti pensammo che fosse quello il loro debutto e, a pensarci bene, non sbagliavamo poiché fu con quel microsolco, fresco ed esplosivo, che i Deep Purple inaugurarono una nuova stagione: l'hard rock spettacolare del Mark II. Infatti non fu difficile scoprire che il 45 giri era estratto dal loro album “In Rock”, anche se non vi conteneva “Black Night”, uscito soltanto come singolo-apripista. Quell'album tuttavia ci aprì le porte della conoscenza come nessun altro, seducendo inesorabilmente una generazione intera.

La band inglese si era rinnovata non soltanto riguardo al suono ma anche nei propri ranghi. Erano andati via Rod Evans il cantante e Nick Simper il bassista, sostituiti da Ian Gillan e Roger Glover, due fuoriclasse. Ma l'avvicendamento era già avvenuto nel precedente disco ("Concerto For Group With Orchestra", voluto da John Lord, sulla scia di un esperimento in voga in quel periodo) anche se fu con “In Rock”, peraltro un titolo che indicava un progetto preciso, uno spartiacque, che i Deep Purple spiccarono il volo in tutto il mondo. 


Nell'album vi si trovano anche “Child In Time”, un pezzo di una incredibile potenza, ancora oggi molto ricordato dai nostalgici di quel periodo, anche se il riff fu “rubato” ad un brano dei It's A Beautiful Day, un gruppo californiano del tempo, e un paio di motivi davvero notevoli come "Bloodsucker" e "Into The Fire". Non meno memorabile anche la monumentale copertina diventata da subito una icona del rock e, nonostante nessuno lo abbia mai ricordato degnamente, il merito maggiore va senz'altro attribuito a Martin Bitch, il creativo produttore che diede un contributo decisivo al suono della band.

Così il Mark II dei Deep Purple di Ritche Blackmore, il fantasioso chitarrista che ha ricevuto il suo battesimo del fuoco in Italia con i Maze, (“Aria del sud/Harlem Shuffle”) e qualche contatto anche con i Trip, John Lord, di formazione classica, Ian Gillan, vocalist tra i più dotati del rock, Roger Glover, eccellente bassista e Ian Paice, uno dei migliori batterista della sua generazione, possono avviare una formidabile carriera pubblicando in rapida successione autentiche perle musicali che diventano storia della musica rock, tra le più luminose, come “Fireball”, “Machine Head”, “Made in Japan” (ritenuto, quest'ultimo, uno dei Live più importanti del genere), prima di cambiare di nuovo pelle per affrontare nuove sfide (Il cosiddetto Mark III con David Coverdale e Glen Hughes), avvenuto dopo il deludente “How Do You Think We Are?”, con “Burn”, infondendo nuove energie.

Dopo scissioni varie e ricomposizioni miracolose i Deep Purple sono ancora in mezzo a noi, attempati e curiosi, e se non li vedete in giro per concerti è soltanto a causa di uno strano virus che sta seminando contagi in ogni angolo del mondo.

E' così quel dischetto della Harvest diventò subito per noi una bussola importante nel difficile ma esaltante commino che, inconsciamente, nell'innocenza più candida, ci stavamo apprestando a compiere, allargando così i nostri orizzonti di nuove prospettive che ci avrebbero portato lontano, molto lontano.

LUIGI CIAVARELLA



 




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