IO & MR.ZIMMERMAN
Lunedì, 24 maggio, Bob Dylan compie ottanta anni!
In realtà prima di questa “scoperta” già circolava timidamente tra noi, nel nostro paesello, l'album “The Times Are A Changin”, con quel faccino imberbe di Bob in bianco e nero stampato sulla copertina, nella versione mono, che molti lo citavano però senza sapere molto di lui.
Eravamo nel pieno degli anni sessanta quando Bob Dylan, che nel frattempo aveva imbracciato la chitarra elettrica intraprendendo un nuovo corso, ci conquistò all'improvviso senza darci il tempo di approfondire la sua conoscenza. Colpa della stampa musicale italiana che ce lo aveva dipinto soltanto come un menestrello della canzone di protesta. Una specie di fenomeno insomma, l'ennesimo cantastorie che, proveniente dagli USA alla pari di un Barry Mc Guire qualsiasi, noto in Italia soltanto per aver fornito a Gino Santercole il pretesto di scrivere il suo pezzo più famoso “Questo vecchio pazzo mondo”, provava a farsi largo nel mondo della canzone d'autore.
Eppure Bob Dylan aveva già circoscritto a chiare lettere il suo campo artistico con alcuni album che stavano cambiato la visione non soltanto della musica rock ma del mondo intero tipo: “Bringing It All Back Home” (1965), i primi strappi eretici ; “Highway 61 Revisited”, che conteneva le epocali “Like a Rolling Stone” e “Desolation Row”; e “Blonde On Blonde”, il doppio vinile del '66 che manda definitivamente alle stelle la sua musica, con brani storici come “Just Like A Woman” o il motivo citato sopra. Si tratta di tre classici che cambiano la fisionomia del rock in un arco di tempo breve, annunciando nei fatti una nuova era. A nostra insaputa evidentemente poiché in quegli anni, a parte ogni altra considerazione, fu pressoché impossibile persino immaginare cosa stesse realmente accadendo oltre oceano, a parte la guerra del Vietnam, le cui notizie d'altra parte ci arrivavano depurate dalla censura.
Bob Dylan lo avrei ritrovato in seguito nella frenetica e convulsa ricerca degli artisti e delle formazioni rock a me graditi, nei primi anni ottanta, quando tutto ricominciò.
E furono facile preda non soltanto gli album sopra citati, nelle loro belle versioni stereo, ma anche quei dischi che vennero dopo come: “John Wesley Harding”, “Nashville Slyline”, “Planet Waves”, “Desire”, “Basement Tapes”, “Before The Flood”, etc, saltando quei titoli che la stampa li aveva condannati all'oblio (“Self Portrait” per esempio) ed altri di cui non ero riuscito ad intercettare perché la carne sul fuoco era tanta e distrarsi era facile.
In seguito aggiunsi altri album alla mia collezione come “Blood on The Tracks”, “Infidels” chiudendo la partita con “Oh Mercy”, anche se non fu questo il suo ultimo sussulto di qualità.
Bob Dylan per me è stata una traccia luminosa nel firmamento della musica rock, una guida che mi ha permesso di esplorare non solo l'aspetto musicale ma, attraverso i suoi testi, anche il racconto del nostro tempo e, quando l'Accademia svedese gli consegnò la massima onorificenza che un Autore potesse aspirare, il Premio Nobel per la Letteratura (nel 2016), per me non ci fu alcuna sorpresa poiché quell'evento significò il naturale riconoscimento, da parte dell' universo letterario, del valore di un grande testimone del nostro tempo, oltre a mettere in chiaro l'importanza del testo musicale, giudicato finalmente alla pari di un testo letterario.
Ed ecco che mi sono venuti in mente, nell'atto della consegna, tutti quei nomi che come Bob Dylan, avrebbero potuto ambire al Nobel: Leonard Cohen, Patty Smith, Bruce Springsteen e forse anche i nostri Fabrizio De André o Roberto Vecchioni, se l'Accademia si fosse decisa prima a compiere questo passo, malgrado le voci contro di coloro che vogliono ancora relegare il valore del testo musicale ai margini della cultura ufficiale come se fossero loro i padroni del mondo.
Tanti auguri Maestro.
LUIGI CIAVARELLA
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