UN RICORDO DI MICHELE PENNISI.
La scomparsa di Michele Pennisi è avvenuta il giorno di venerdì santo, alla veneranda età di 93 anni. E'stata una figura
caratteristica della storia del nostro paese. Fu una persona umile e rispettosa
con un passato vissuto ai margini della cosiddetta “società evoluta” ma dotato di una ricchezza
d’animo e di una simpatia uniche.
di LUIGI CIAVARELLA

Aveva un profilo scarno su un
corpo sottile infilato quasi sempre in una giacca di taglia superiore alla sua,
tanto che le scendeva buffamente lungo i fianchi, mentre, allo stesso modo, le braccia
sembravano scomparire sotto le maniche, lasciando scoperte appena le estremità
delle dita. Un indumento smisurato, dai colori sgargianti, improbabili, a volta
indossato l’uno sull’altro quasi fosse un tentativo ingenuo forse efficace di
proteggersi dal freddo oppure, per quanto paradossale, un modo alternativo per
custodire il suo guardaroba, itinerante, quasi una tartaruga che si porta
appresto tutto ciò che possiede. Era questo il suo corredo abituale, che
comprendeva anche un paio di pantaloni che mostravano le caviglie, tirati su da
predelle alla Charlot, la maschera che indossava e che lo distingueva dal resto.
Michele Pennisi era cosi, come tutti in paese lo hanno conosciuto,
una persona semplice, discreta e, negli ultimi tempi, anche timida e
introversa, quasi defilata dal fragore paesano. A volte lo vedevo attraversare
lentamente le strade intorno al mercato sempre col fardello che portava con sé,
muovendosi con lentezza quasi con circospezione. Sembrava una persona smarrita,
estranea ad un mondo che forse si era dimenticato di lui e che aveva già
voltato pagina. Lo stesso mondo che nemmeno lui più conosceva. I ragazzi che un
tempo lo schernivano sono nel frattempo diventati adulti e i nuovi giovani
hanno assunto abitudini anche peggiori. Lui era rimasto lì come sempre a
scrutare il cielo, infreddolito all’angolo della piazzetta pronto a farsi
scattare una foto da me, quasi sorpreso per questa improvvisa attenzione nei
suoi riguardi ; forse una opportunità inaspettata ai suoi occhi per quelle foto
che gli avevo chiesto di scattare, e che lui si era subito messo in posa, affinché
un giorno il suo paese non lo dimenticasse come era accaduto con altri in
passato.
E’ un paese ingrato il nostro, che
stritola tutto e tutto digerisce senza rispetto alcuno per le storie più
nascoste dei suoi figli minori, per quelle vite vissute sul filo
dell’indigenza, dell’umiltà e della povertà, divenuti da un giorno all’altro
pesi insopportabili per una elite che misura la sua capacità di esistere su
parametri che non contemplano più, o perlomeno li attenuano di parecchio, i
rapporti di solidarietà e di appartenenza di una persona rispetto al luogo in
cui gli è dato di vivere, anche se occorre dire che i servizi sociali del municipio hanno sempre
assistito, finché è stato possibile, l’indigenza di Michele Pennisi.
Allora volgi lo sguardo con
nostalgia al passato e lo vedi lì, curvo a discutere di football, della sua
cara Inter che esalta quando vince e che giustifica quando perde, con una
passione tale che raramente lo riscontri altrove; oppure ti sorprendi ad
osservarlo mentre discute il prezzo delle sue poche mercanzie o quando, al
campo bocce dietro il chiosco, noi adolescenti, assistevamo alle sue scommesse
sul campo da bocce e a tutto quel rito infinito che precedeva sempre quella disputa
dai toni accesi con i suoi sodali, amici anche loro scomparsi da tempo immemore.
Lui era sopravvissuto ad un mondo
che non esiste più. Era nato nel 1921 ed è scomparso un venerdì santo di pochi
giorni fa, date importanti riservate alle persone speciali, senza ottenere per
questo i conforti religiosi poiché in quel giorno, tutto dedicato al ricordo di
una morte molto più importante della sua, la chiesa non ha facoltà di
celebrarli. Se ne andato in silenzio, con discrezione come d’altra parte è
sempre stata l’ultima parte della sua vita, quasi inibita da una realtà che non
gli apparteneva più da tempo. Aveva avuto un fratello, Benito, morto molti anni
fa, e una sorella, Maria, anch’essa deceduta in circostanze simili al fratello.
Nessuno dei tre, che io sappia, aveva avuto eredi. Viveva in un ambiente malsano, quasi in una
grotta con la cisterna che gli serviva da pattumiera e un angolo dove bruciava
la legna per riscaldarsi o per cucinare. Fu questa la causa di un principio di
incendio che si sviluppò in quel luogo e che gli procurò una ustione gli arti
inferiori tanto da ricorrere alle cure del nostro pronto soccorso, dopo un
ricovero a San Giovanni Rotondo. Questa vicinanza fece nascere un rapporto di
simpatia reciproca che durò per il resto della sua vita sino a quando non lo
vidi più in giro senza capire che stava morendo in un letto d’ ospedale
nell’indifferenza di tutti.
RIP
fonte : www.sanmarcoinlamis.org
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