FABRIZIO DE ANDRE’ VENTANNI DOPO.
1
Entrare nel universo poetico
sentimentale di Fabrizio De André non è cosa facile. La statura del cantautore,
colto e riservato, sarcastico e anticonformista, va inquadrata in un percorso
che va oltre l’aspetto meramente musicale per sconfinare nella vastità della
cultura italiana contemporanea che egli ha saputo esprimere in quarantanni di
ininterrotta attività musicale.
Un percorso che inizia nei
primi anni sessanta con le prime composizioni che guardano soprattutto alla
vicina scena musicale francese – Georges Brassens e Jacques Brel su tutti – per
concludersi in una fredda notte di gennaio del 1999 in un ospedale milanese. Un
lungo periodo in cui Fabrizio De André è riuscito ad esprimere compiutamente le
tante voci che lo hanno posseduto, travolgendo i canoni tradizionali della
canzone italiana con una scrittura nuova, irriverente, colta, unica e
raffinata, che parla di perdenti e di sopraffazione, di guerre e di costume, di
mala politica e spiritualità, che sono tutti temi inusuali e coraggiosi per l’Italia
catto-conformista di quegli anni. Lui, che aveva avuto i natali borghesi,
diventa così il primo difensore di quella civiltà sotterranea e sottomessa, dei
vicoli, del mondo degli emarginati e dei perdenti e lo manifesta con gusto ed
eleganza attraverso una serie di canzoni che lasciano un segno profondo nella
storia della canzone italiana.
Dal primo 45 giri Nuvole barocche/E fu la notte (Karim, 1961) a La canzone di Marinella scritta l’anno successivo ma pubblicata nel 1964, Fabrizio De André pubblica un pugno di singoli che se da un lato dimostrano la sua indole di fustigatore del mal costume di provincia, dall’altro, attraverso una serie di citazioni, e qualche “appropriazione indebita”, rivelano un Autore colto e affascinato dalla letteratura. Almeno sino al 1968, la vigilia di Tutti morimmo a stenti, il cantautore genovese fa sfoggio della sua vasta e sorprendente cultura. La città vecchia per esempio ha qualche debito nei confronti di Umberto Saba ("Dove più triste è la via" )come allo stesso modo la musica riecheggia un vecchio brano di Georges Brassens (Le Bistrot) ; e La guerra di Piero, una denuncia della stupidità della guerra, cita invece una canzone pacifista del 1959 scritta da Italo Calvino e Sergio Liberovici dal titolo "Dove vola l’avvoltoio" (Per la limpida corrente/scendon solo carpe e trote/non più i corpi dei soldati/che la fanno insanguinare).
Fila la lana, retro
del singolo Per i tuoi larghi occhi del 1965, per rimanere in tema, ha invece una storia travagliata. Scritta originariamente dal regista francese
Robert Marcy nel 1949, che a sua volta prendeva spunto da un’aria medievale
francese del XV secolo, venne portata al successo da Jacques Doual nel 1955. La
stessa Per i tuoi larghi occhi cita addirittura Charles Baudelaire (Mes yeux, mes carges yeux clartés). Sono tutti segni di una profonda
cultura letteraria che Fabrizio De André possiede e lo contraddistinguono dal
resto dei cantautori italiani. D’altra parte in una dichiarazione ammette di
produrre cultura con le canzoni. Tra l’altro non mancano gli attestati di stima
da parte del mondo letterario. Mario Luzi ne rimane folgorato (<De André è
davvero uno chansonnier per eccellenza, un artista che si realizza proprio
nella inter testualità tra testo letterario e testo musicale>) con buona pace
per coloro che hanno dovuto aspettare l’assegnazione del Premio Nobel a Bob
Dylan, alcuni decenni dopo, per rendersi conto dei legami stretti che esistono
tra musica e poesia.
In questo periodo altre
citazioni ai limiti del plagio attraversano la scrittura di Fabrizio De André.
Per esempio la canzone <Via del Campo>, compresa nel primo volume della
Bluebell del 1967, la musica è simile a <La mia morosa la va alla fonte>
di Enzo Jannacci, in origine riscritta su una ballata che risale al
Rinascimento scoperta da Dario Fo. In questa circostanza Fabrizio fu accusato
di plagio e la causa intentata da Jannacci nei suoi confronti si risolse poi
amichevolmente. Sono dello stesso momento <Geordie>, una ballata inglese
cantata anche da Joan Baez. <La Ballata di Miché> (uno dei suoi primi
brani), il cui testo è scritto con Clelia Petracchi, e <Bocca di rosa>,
forse il brano più irriverente (e famoso) del grande genovese. Alcune di queste
canzoni troveranno posto in Volume 3 del 1968. Qui troviamo pure tre brani di
Brassens, tra cui una fedele traduzione de <Le gorille> e <Si fossi
foco> addirittura da Cecco Angeleri, un poeta senese vissuto nel XIII secolo
contemporaneo a Dante Alighieri, oltre ad alcune canzoni pubblicate su singoli.
Tutto ciò alla vigilia del
suo primo album concettuale, <Tutti morimmo a stenti> del 1968, nell’anno
in cui il cantautore genovese abbandona la nuda canzone per salire in cattedra
e raccontare da quel pulpito ogni nefandezza umana, con lucidità sorprendente.
2.
ll primo album che Fabrizio De
André pubblica è del 1967, si intitola <Volume Uno> e raccoglie buona
parte del materiale finora pubblicato soltanto a 45 giri. I suoi classici ci
sono tutti: da <Bocca di rosa> a <Via del Campo> passando per
<Preghiera in gennaio – dedicato al suo amico e conterraneo Luigi Tenco da
poco suicidatosi -, sino a <Carlo Martello ritorna dalla battaglia di
Poiters> scritta a quattro mani con Paolo Villaggio (con tanto di corno inglese),
il cantautore genovese mette in mostra tutti i lati della sua scrittura
eterogenea con qualche debito verso la canzone francese. Già dal secondo album,
pubblicato l’anno dopo, dal titolo <Tutti morimmo a stenti> però egli
rivela la sua attenzione per il Concept. Nel lavoro coesistono tutti i germi
del malessere contemporaneo: da <Cantico dei drogati> a <La ballata
degli impiccati> sino a <La leggenda di Natale>, Fabrizio De André,
con cinismo misto sentimento, entra nel cuore dei problemi dell’anima attraverso una
scrittura dai riferimenti letterari, ma con toni crudi e profondi. Il
successivo <Volume Tre>, parzialmente antologico, uscito nel 1968,
accoglie il respiro intellettuale del cantautore attraverso alcuni brani che
mettono a fuoco l’universo degli ultimi, degli irregolari e dei perdenti. E’ il
suo marchio di fedeltà, il filo di Arianna che lo porterà lontano nel tempo, la
sua <bussola tascabile>, come dirà in una delle poche interviste concesse
alla stampa. Vi sono canzoni, già accennate sopra (da Cecco Angeleri a Georges
Brassens, etc..) che lasciano un segno tangibile e non soltanto nella
storia della canzone d’autore italiana.
Il Fabrizio De André
spirituale attraversato da una folgorazione mistica lo troviamo nel disco
<La buona Novella> opera tratta dai quattro Vangeli Apocrifi Quelli dell’ufficio stampa di Gesù Cristo come li definiva (esattamente il Protovangelo
di Giacomo e, soprattutto, il Vangelo arabo Dell’Infanzia). Vi suonano i
Quelli, gruppo beat che presto sarebbero diventati la Premiata Forneria
Marconi, con un suono alla altezza dell’impegno narrativo. <Il sogno di
Maria>, quarto pezzo dell’album, è una delle canzoni più belle in assoluto, tuttavia molto lontana dai canoni del catechismo. Laddove tutti guardano alla
contestazione (siamo nel 1969 quando Fabrizio De André e Roberto Dané mettono
mano alla stesura del progetto) lui cerca nella dimensione spirituale la
propria ragione esistenziale, una risposta alla propria crisi interiore. Ne il
<Testamento di Tito>, una rilettura critica dei dieci comandamenti da
parte di un condannato alla croce, Fabrizio De André da voce al grido degli
emarginati accumulandoli ai diseredati e agli sbandati di oggi. Come in
<Maria nella bottega del falegname>, il posto in cui si costruiscono
croci, dove sembra quasi di percepire il rumore stridente della pialla sul
legno, il rumore della morte e del castigo estremo. De André dirà che <Aveva urgenza di salvare il cristianesimo
dal cattolicesimo> in una
dichiarazione per il giornale Extra, per spiegare l’urgenza di tanto impegno.
Con <Non al denaro, non
all’amore né al cielo> Fabrizio De André sorprendentemente adatta alcune
poesie di Edgar Lee Masters, - <L’Antologia di Spoon River> - composte
dal poeta statunitense nel 1915, dandole nuova vita attraverso una lettura
musicale molto contemporanea. L’artefice di questa svolta in verità è Fernanda
Pivano, traduttrice di Autori americani che affianca De André nella ricerca dei
volti dei personaggi. Vi appaiono il blasfemo, il rancoroso suonatore Jonas, lo
spacciatore di lenti (l’ottico), il malato di cuore innamorato, etc. tutti
personaggi che dormono sulla collina
e che rappresentano a vario titolo l’umanità e le sue manifestazioni allusive.
Con <Storia di un
impiegato>, pubblicato nel 1973, Fabrizio De André, con un suono e un testo
decisamente asciutti e volutamente provocatori racconta il 68 cinque anni dopo
lo svolgimento dei fatti. Non è un racconto agiografico bensì una
rappresentazione della società contemporanea, distorta, corruttrice e bigotta,
emersa dopo l’anno fatidico. Un’opera che indaga sulla fine di una utopia,
molotov piuttosto che liberazione sociale ed emancipazione giovanile. Un disco,
scritto insieme a Giuseppe Bentivoglio e musicato da Nicola Piovani, che farà
storcere il naso a parecchia gente per i toni inusuali posti in grassetto ma
che tuttavia verrà rivalutato negli anni. Rimane in ogni caso un episodio a sé
nella discografia di Fabrizio De André.
Dopo due album interlocutori, <Canzoni> del 1974 e <Volume 8> dell’anno dopo, scritti in
tandem con Francesco de Gregori (da citare almeno alcuni classici come <Storie
di ieri>, <La cattiva strada> e <Giugno 73> oltre ad alcune traduzioni di Cohen e Dylan), il grande
cantautore affronta, con il sostegno del cantautore Massimo Bubola, uno dei
suoi album più confusionari, <Rimini>, che nelle intenzioni dell’Autore
voleva essere una denuncia della società borghese mentre in realtà è pieno di
contraddizioni e il tema centrale si disperde in tante vie. Tuttavia brani come
<Andrea>, che affronta il tema spinoso della omosessualità, <Sally>
e una traduzione minore di Bob Dylan (<Avventura in Durango>) salvano un
album abbastanza controverso.
Dopo questo lavoro il
cantautore genovese si decide ad affrontare il pubblico attraverso una serie di
concerti tra Firenze e Bologna, vincendo la sua nota idiosincrasia nei
confronti del palcoscenico. Lo accompagnano i musicisti della formazione
progressiva La Premiata Forneria Marconi e le canzoni acquistano in
brillantezza. Infatti i due dischi che vengono estratti dalla tournée (Volumi 1
e 2) – pubblicati separatamente – raccontano due mondi diversi che si
incontrano, dove la musica prevale sul testo e dove, tutto sommato, il
risultato è solo a tratti soddisfacente. Si salvano pochi brani tra cui "Il
pescatore", "Andrea" e, sorprendentemente "Verranno a chiederti del
nostro amore", che riesce persino meglio dell’originale.
Ma l’album successivo, privo
di titolo, quello comunemente detto "L’indiano" ha un risvolto drammatico
poiché arriva dopo i fatti di cronaca conseguenti al suo rapimento e a quello della
sua compagna Dori Ghezzi avvenuto in Sardegna nel 1979. Il disco ne risente in
maniera esplicita ed è chiara la percezione quanto questa svolta umana abbia
inciso in profondità sul risultato. Rimane tuttavia l’album del coraggio e dei
diritti calpestati con alcune canzoni che diventeranno presto dei classici come
per esempio <Quello che non ho>, che possiede un taglio rock, e
soprattutto l’epica <Fiume Sand Creek>, somigliante però a <Summer
68> dei Pink Floyd di <Meddle>, che denuncia i diritti delle minoranze,
oltre a due brani emozionanti come <Ave Maria> e <Hotel
Supramonte>, dedicati rispettivamente al popolo sardo e al suo rapimento. Il
disco è arrangiato da Massimo Bubola.
3.

Il risultato è straordinario
sotto tutti i punti di vista. La musica raccoglie umori e sonorità provenienti
da tutto il bacino mediterraneo attraverso una ricerca meticolosa effettuata
sul corpo incontaminato della musica popolare, (tra Genova e Algeri),
dove il cantautore rivolge la sua attenzione ben sostenuto da Mauro Pagani
(reminiscenze PFM), il musicista diventato nel frattempo uno dei più autorevoli
ricercatori nel panorama musicale italiano.
Il respiro universale della world
music trova in "Creuza de Ma" il suo momento più esaltante. Una ricerca musicale che scava nelle profondità
silenziose delle culture popolari del Mediterraneo trovando inaspettatamente
spazio e dignità nell'intimità di un album che pone subito questioni
inerenti l’uso del linguaggio dialettale nel campo della musica. Un linguaggio incomprensibile, vernacolare, che investe la canzone d’autore
italiana di elementi nuovi creando disorientamento, ma anche attenzione
soprattutto in ambienti fuori dai confini italiani, dove la World Music sta
prendendo forma grazie soprattutto a Peter Gabriel, che indica subito "Creuza
de Ma" come uno dei contributi più importanti rivolti alla causa. Il disco
arriva due anni prima di Passion dell’ex Genesis, considerato il vertice
assoluto della World Music, peraltro colonna sonora del noto film di Martin
Scorsese, The Last Temptation. Nel lavoro di Gabriel la musica world ha il
grande merito di illuminare culture
musicali sconosciute provenienti dagli angoli più sperduti della terra. Dalle
profondità arcaiche dell’Africa tribale sino alle remote terre pakistane, il
musicista inglese indaga un vasto campo di sonorità con il compito di far
emergere e contaminare musicalità finalmente divenute di respiro universale.
Il disco di De André si
inserisce in questo flusso ponendo persino in sordina i contenuti testuali che
invece sono ugualmente importanti. Dalla emozionante Creuza de Ma passando
per la torrida Jammin-a, di chiara percezione erotica ; Dumenuga un po’ alla Bocca di rosa , sino a Sidun, brano evocativo che esprime tutto il dolore di un padre per la
morte del figlio in terra libanese. La musica e la presenza di Mauro Pagani
sono palpabili in ogni angolo del disco.
A distanza di cinque anni da
<Creuza de Ma> arriva <Le nuvole>, ancora scritto in collaborazione
con Mauro Pagani. Un disco in cui i riferimenti etnici restano parte importante
seppure di minore impatto rispetto al precedente. Fabrizio De André si rivolge
ai potenti e alla politica che sembrano essere i suoi obiettivi principali. Il
brano più rappresentativo infatti è La domenica delle salme, che
traccia una linea di collegamento tra politica, corruzione e trame oscure. Uno
spaccato di preoccupante attualità che il cantautore genovese svela con
lucidità e sarcasmo. Poi tra Ottocento, dalle tonalità barocche, e la
partenopea Don Raffaè (con una affettuosa citazione di Domenico
Modugno), ricca di spunti ironici e farseschi, seguono Megun Megun in
dialetto genovese con Ivano Fossati e infine La nova gelosia, che
chiude l’album, tratto da un tema popolare napoletano.
Con Anime salve del
1996, il disco del congedo, Fabrizio De André scrive un lavoro di straordinaria
bellezza, segno evidente di una raggiunta maturità espressiva e di uno stato di
grazia ineccepibile. Pensato con Ivano Fossati il disco poi subirà dei
cambiamenti. Il lavoro racconta le tante sfaccettature del mondo contemporaneo,
giunto a fine millennio tra contraddizioni e solitudini. Da Princesa a Smisurata
preghiera la poesia del grande genovese si spiega nelle sue forme più
congeniali. Un racconto splendido che da la misura dei risultati raggiunti in
tanti anni di ininterrotta capacità di raccontare la vita nelle tante
declinazioni e di incidere nel tessuto sociale della nazione. Una poesia da
strada che trova persino collegamenti col suo passato, disarmante ma pur sempre attuale, tra temi
che sembrano rincorrersi e ripetersi.
Ho visto Nina volare, Dolcenera e sopratutto Khorakhané, che parla di cultura rom e
immigrazioni, sono i temi preveggenti che diventano i prodromi di una
sofferenza che presto avrebbero avuto la ribalta nel campo delle emergenze
umanitarie e di cui Fabrizio De André già ne prefigura la disumanità crescente. Poi Disamistade dove ritorna l’amata Sardegna e infine A
cumba, la scintillante metamorfosi che precede Smisurata preghiera che chiude il sipario, l’ultimo sussulto.
Anime salve rimane
il canto del cigno di un cantautore di straordinaria potenza quale è stato
Fabrizio De André. Un album diventato il punto d’arrivo di un percorso poetico
esistenziale. Un cantautore geniale che ha dato dignità alla parola, partito
nei sessanta in una Genova ancora provinciale ma ricca di fermenti, che
scandaglia i fondali della esistenza umana mettendo in risalto i lati più
deboli, le virtù sommerse, la storia dei perdenti.
Una testimonianza che rappresenta
una unicità nel panorama della canzone d’autore italiana.
Fabrizio De André muore l’11 gennaio del 1999 a Milano
colpito da un male incurabile.
Avvertenze
:
Il testo è tratto da :
<I diversi volti di Fabrizio De André> 17/05/2017 ;
<Fabrizio De André: dai vicoli alla spiritualità
all’impegno civile> 13/06/2017;
<La svolta World Music di Fabrizio De André>
24/09/2017.
Pubblicati sul sito web
www.sanmarcoinlamis.eu
/Music’Arte,
Direttore: Antonio Ciavarella
.
Citazioni da :
-
<De André rivelato> di Alessio Lega,
<Vinile> n. 001 gennaio 2016 ;
-
<Fabrizio De André: laudate nomine>, di
R. Cappelli, F. Guglielmi e A. Rui Scanzi, Mucchio Selvaggio/Extra n. 01
primavera 2001;
-
<24.000 dischi> a cura di Riccardo
Bertoncelli e Chris Thellung, Milano 2005
-
<Enciclopedia del Rock italiano>,
Arcana editrice, Milano 1993.
CIAVARELLA LUIGI
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