LA STORIA DI UN MASSACRO ANNUNCIATO.

Oggi ricorre il centenario dell' entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale.
Ovunque ci sono commemorazioni più o meno dovute, sopratutto nei luoghi dove si sono svolti i tremendi fatti, tra gli altipiani e le vallate, le montagne e le pianure delle regioni coinvolte nel conflitto: dal Friuli all'Alto Adige sino alle pianure venete, teatri di battaglie e di aspri combattimenti. 
Tutto ciò per ricordare a tutti quanto sia fondamentale il senso dell' Unità dello Stato. 
L'unità della nazione: fu questa il motivo che spinse l'Italia ad entrare in guerra a fianco della Francia e della Russia contro l'impero austro ungarico e la Germania, che erano stati sino a pochi mesi prima alleati dell'Italia. 
Sarebbe bastato che l'Italia avesse dichiarato la propria neutralità e avrebbe ottenuto in cambio, da qualsiasi belligerante, i territori che mancavano per unificare l'Italia: le regioni nord est e l'Istria ancora distaccate dall'ipotetico sogno dell'Italia unita. Da aggiungere che l'Italia non aveva nemmeno più l'obbligo di rispettare i trattati di alleanza, in caso di conflitto, come invece avvenne, perché i suoi ex alleati avevano disattese le regole e quindi si trovò nella favorevole situazione di ottenere il suo suo scopo senza colpo ferire. 
L'Italia invece optò per la guerra nonostante l'opposizione della maggioranza degli italiani e della Chiesa. Nonostante la logica e il buon senso.
Perché l'Italia entrò in guerra è scritto nei libri di storia. 
Perché non vi abbia rinunciato mi risulta incomprensibile. 
Non era d'altronde neppure l'unica nazione europea a sottrarsi al conflitto datosi che la Spagna, la Norvegia e tante altre nazioni non vi parteciparono. Però l'Italia entrò in guerra, seppure in ritardo rispetto alle altre nazioni, e lo fece posizionandosi a favore della triplice Intesa contro la triplice Alleanza, cambiando posizione.


La guerra che incominciò per l'Italia giusto cento anni fa di questo giorno e finì tre anni dopo, il 4 novembre nel 1918, lasciò sul terreno oltre 600.000 morti e circa un milione di feriti e mutilati.
Sin qui i fatti, che si possono leggere ovunque.

Cosa resta oggi di quella immane tragedia generazionale, che coinvolse migliaia di giovane vite in cui tutti, a vario titolo, per ragioni a me sconosciute indicano come "caduti" o "eroi", quando invece dovrebbero chiamarli ragazzi sfortunati, vittime di un sistema aberrante di relazioni in cui vennero mischiati interessi nazionali e retorica patriottica, arretratezza e un distorto senso dell'unità di una nazione che è stata sempre messa in discussione sin dai giorni della conquista del sud da parte di Garibaldi. Cosa resta oggi è difficile spiegarlo ad un ragazzo che si appresta a pigiare il tasto di un computer, tanto appare lontanissimo quel lembo di storia.  

Se invece consideriamo oggi gli ultimi dati relativi all'andamento della nostra economia che danno l'Italia in crescita mentre il sud ristagna, raccontiamo una Italia che nei fatti è disunita. Così si legge nel rapporto. Ciò significa che ci sono due realtà geografiche che non marciano all'unisono, due velocità differenti in cui ciascuna è diversa dall'altra. D'altra parte i tanti rapporti economici sul Mezzogiorno hanno sempre fotografato queste differenze come se ci fossero sempre state due nazioni distinte e separate. Una forbice che si allarga sempre di più. Un pò come i ricchi e i poveri, o tra chi ha un lavoro e chi invece lo cerca, tra chi percepisce un vitalizio osceno e chi invece non riesce ad arrivare a fine mese. Quindi l' Italia unita in sostanza non esiste. Sicuramente non è mai esistita nonostante gli sforzi per renderla tale.
Ed è questa l'Italia che oggi si prepara a commemorare lontanissimi fatti di sangue, orrori e dolori, che nulla hanno a che vedere con la realtà di oggi. 
Cosa ci sia da commemorare non l'ho capito. In Alto Adige oggi ci sono bandiere a lutto, a mezz'asta ed è persino comprensibile poiché, nonostante l'ampia autonomia amministrativa che essi godono, non si sentono italiani come gli altri. Ed hanno ragione. Non si sono mai sentiti italiani perché non sono italiani dal momento che sono germanici ed hanno sempre avvertito lo strappo dalle loro radici come qualcosa di innaturale che le armi non possono regolare.
Allora il mio pensiero oggi va ai nostri giovani cafoni, braccianti e contadini di Puglia, di Lucania e Calabria che cento anni fa hanno lasciato, loro malgrado, le loro terre per rispondere ad un ordine incomprensibile, irrazionale, tragico. Chi parla di senso del dovere è in evidente malafede.
Penso ai napoletani, ai siciliani e a tutti gli uomini del mezzogiorno d'Italia che non hanno mai accettato, sin dalle origini, una Unità imposta con la baionetta, che ha portato loro soltanto miseria e sofferenza, lutti e tasse. Penso allo stato sabaudo che ha elargito le terre ai latifondisti collusi con la nascente mafia, che ha dato potere ai nuovi padroni venuti dal nord a dettare legge contro i cafoni inermi, abbruttiti dalla fame e dalle malattie, nelle piane e nelle montagne, che adesso la nazione chiama alle armi. Ma per combattere cosa? un nemico che neppure si riesce ad immaginare, lontanissimo da raggiungere quasi come andare sulla luna e un borghesia dominante in combutta con gli interessi dei Savoia, materiali e nostalgici (la famosa quarta guerra di Indipendenza, che chiude un ciclo, con un conflitto di tipo risorgimentale, insulso e criminale) che vogliono cimiteri di morti per sedersi al tavolo del nulla poiché era stato già tutto deciso prima che il fragore delle armi prendesse il sopravvento.
Cosa resta di questa orribile mattanza? Una strage che ha causato la morte di migliaia di giovani e spezzato per sempre equilibri familiari ; una mattanza che ha procurato dolore e lutti perenni in ogni casa, feriti e mutilati che hanno portato per il resto della loro vita i segni  nefasti di tanta ferocia consumata tra esseri simili. 
Cosa resta dunque, forse appena il ricordo di una medaglia di bronzo appesa ad una pergamena accanto alla foto di un milite che mostra con finto orgoglio la propria incoscienza.
Ho un ricordo personale di tante pergamene che ho visto girare in casa di mia nonna, e in seguito in casa mia, rivolte al "caduto" Luigi Ciavarella, che era mio nonno, colpito nell'area cardiaca da un proiettile (sono in possesso del certificato di morte stilato da un ufficiale medico e conservato negli archivi dell'anagrafe) a poche settimane dalla fine del conflitto. Colpito dal colpo esploso dall'arma di un cecchino tedesco. Fu quest'atto brutale, assassino, a sancire la sua fine, avvenuta persino distante dall'Italia poiché il suo corpo è sepolto in un campo francese, in un triangolo di terra vicino al confine belga, non lontano dalla regione dove mio padre ha abitato per molti anni. Beffardo il destino.

Mio padre avrà cura invece di custodire per anni tutte le tavole di Achille Beltrame dedicate alla grande guerra, allegate in origine al periodico La Domenica del Corriere, realizzando un archivio della memoria, per tutto il tempo che resterà in Alsazia. Aveva soltanto due anni quando suo padre morì al fronte. Probabilmente è stato il cruccio della sua vita. Mio nonno invece solo 28.  
Allora quest'oggi ho un pensiero solo per quei poveri ragazzi falciati dalle mitragliatrici, colpiti dai cecchini, smembrati dalle cannonate, saltati in aria nelle trincee, morti nel fango o tra la neve. Rivedo i loro volti impauriti, i corpi tremanti, l'angoscia nei loro occhi, la paura. Giovani  seppelliti lontani dalle loro case nella tremenda solitudine che precede la fine. Ragazzi soffocati dai gas mortali o stanati dal fuoco dei lanciafiamme nei rifugi improvvisati sui fianchi delle montagne neanche fossero formiche, sono lì che gridano vendetta per le loro vite spezzate. E quelli che son tornati hanno portato i segni di quell'inferno per sempre sottopelle.
E allora oggi rimane il giorno del silenzio assoluto contro il frastuono delle parole che verranno pronunciate in ogni luogo, con la retorica di sempre. 
Tacete, affinché non ci siano più guerre in qualunque parte del mondo. 
Luigi Ciavarella






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