LA VADDA DE STIGNANO ED ALTRI CANTI, PARTE SECONDA.

 Un volume che completa la ricerca sui canti popolari di San Marco in Lamis.



A distanza di cinque anni dal precedente Grazia Galante, la nota ricercatrice di tradizioni popolari di San Marco in Lamis, ritorna a parlarci dei canti popolari, attraverso la pubblicazione di un secondo volume, uscito in questi giorni, che sembra concludere la ricerca. Il volume, che sin dal titolo richiama il precedente, conserva la stessa linea ma sposta l'obiettivo verso nuovi capitoli che assimilano i canti da ballo, (pochi ma significativi), i canti comici e satirici, (l'area più gustosa), passando per i canti calendariali, canti sul lavoro, canti dell'emigrazione, quelli politici (la parte più cospicua dopo i canti vari), i canti dei soldati e infine quelli alla rovescia (Alla mmersa), l'autrice ordina così un catalogo che ha tutte le caratteristiche per occupare un posto di rilievo nella storia della cultura popolare del nostro paese.

Introdotta dalla tarantella più famosa del paese, “Quanne abballa lu ricce e lla cestunia”, conosciuta per le tante interpretazioni ricevute nel corso del tempo, questo ballo veniva eseguito in origine durante le feste nuziali, a carnevale o al termine del raccolto nei campi coinvolgendo la partecipazione giocosa dei presenti. La tarantella, il cui testo viene riprodotto integralmente, rappresenta al meglio le radici popolari del microcosmo garganico.

I canti comici e satirici invece prendono di mira monaci e preti (Sott'acqua e ssotta vènte/c'è chi bussa al mio convento... ) con maliziose e tendenziose allusioni (“Mamma, mamma mò vvè zi mò”, oppure l'arciprete malandrino di “Da Nèpele jènne arrevate na cartellina”, (Meniteme a cchiamà, vampa de fòche/e ttutte e ttèja inte lu lètte ce cucame) proseguendo con una satira divertente rivolta ai diversi quartieri di paese “Oh, che mbroglio! Oh, che ppasticce!” (Inte la Strettela li jumente/sò nna manujata de fetènte,/Li femmine l'Addulurata/e ssò tutte nnamurate e via dicendo. Sono quadretti paesani che ci riportano indietro nel tempo allorquando la schiettezza e l'improvvisazione, creativa e pungente, esercitavano il pubblico pettegolezzo con tempestiva aculatezza come per esempio avveniva anche durante il carnevale, nella pittoresca cornice delle sfilate che comitive di mascherati si producevano per le vie del paese, accolti con getto di coriandoli da folle festante (Aprìtici le porte/che passano, che passano/aprìtici le porte/che passano i cavaliè). Poi vi erano Le Muntagnole (La “cumpagnia” per antonomasia), il gruppo folkoristico che sfoggiava un elegante corredo tradizionale intrattenendosi per le strade del paese, offrendo ai passanti canzoni che facevano così : “E nnua sime muntagnole/E addurame de viola./E senza che cce spijate/nuua stame accredentate/..” e via cantando.

I canti calendariali ci forniscono altre curiosità come “Ji so mMarijanecòla della Rocca”, un canto in cui “la figlia di Mariannina della piazza, fa un elenco della dote ricevuta” (Tegne sètte lenzòla de line/tègne de lana nu bbèlle cusscine/tègne nu sacche chjine de mbicce/...) una usanza in voga a San Marco in Lamis sino a pochi decenni fa quando la sua esposizione era un momento di partecipazione collettiva.

Tra i Canti della Questua il più noto è senza dubbio “Jo' jè Gnenzante”, un tormentone che accompagnava (e accompagna tuttora) un'antica usanza, che veniva eseguita il giorno di Ognissanti quando gruppi di giovani, muniti di pochi strumenti musicali, a volte anche di un asinello, allietavano con le loro voci le vie del centro chiedendo a parenti e negozianti “L'ànema li morte”, (Jo' jè Gnenzante e ttutte lu sapime/e ddacce doje fecurarine/...) raccogliando nelle loro bisacce ogni ben di Dio.

I Canti sul lavoro, che nascevano spontanei principalmente nei campi, - pochi ma significativi –, ci introducono nel tormentato universo (ma anche pettegolo) dei canti legati all'Emigrazione, argomento principe in un paese in cui questa condizione ha una sua peculiare tradizione. La descrizione del lacerante distacco lo troviamo tanto in “Canta lu rescegnole a rrèvela d'arte”, una sorte di blues paesano (Dumane matina all'alba m'èja parte/e lla partenza mija nnu sconforte) quanto in No vvogghie ji all'Amereca/che jjè troppe a llogne,/no vogghie sapè nènte/de quidde che cce fa (“No vvogghie ji all'Amereca”) quando i nuovi continenti (America ed Australia) rappresentavano per molti il sogno da raggiungere. Ma l'emigrazione ha prodotto anche benessere ed ecco che nel canto “Li mugghière li merecane” vi trovano posto agiatezza e pettegolezzo (Li mugghiere li merecane/non ce màgnene cchiù ppatane,/ce magnene li tagghiuline/cu llu carna di jaddine/ … Li quattrine che mm'ha mannate/cu llu nnamurate me l'èje frusciate/), dicerie o verità che ben evidenziano il clima ambiguo che si respirava allora in paese.

Su questi temi vi sono molti altri canti, forse il capitolo più intenso del volume in cui Grazia Galante vi indugia maggiormente e dove la sua ricerca spazia in ogni direzione ponendo in rilievo molti aspetti. Dall'abbandono al melodramma, alla solitudine come alle relazioni spezzate, alla infedeltà, l'emigrazione ha lasciato tuttavia sul terreno molte ferite spesso insanabili.

Anche nei Canti Politici, nel capitolo successivo, abbiamo una varietà di motivi che testualmente si contrappongono, per passioni e argomenti, tra le diverse fazioni. In questo “teatrino” vi appaiono i nomi più illustri di paese che a vario titolo hanno animato la scena politica di San Marco in Lamis: “Quanne vène Majetelasse (che fu tra i fondatori del Partito Socialista di Capitanata) lu pajese ce scunquassa/e cce jènghie d'allegrija oppure, più sarcastico e irrispettoso, Majetelasse jè bbèllefatte/li facime lu letratte/l'appennime mbacce lu mure/e mMacarèlle lu pigghia ncule.

D'altro lato la disputa tra democristiani, comunisti e area liberal-repubblicana non conosce tregua : “O bianco fiore”, l'inno democristiano, cita Angelo Chiaramonte (la jaddina ha ffatte l'ove/l'ha fatte Sope lu Ponte/alla faccia de Chiaramonte) oppure L'ha fatte inte la cajòla/alla faccia de Sijola (Michele Parisi, che fu consigliere comunale nel 1948). Vengono citati anche Federico Kuntze, pretore ma sopratutto esponente di spicco del Partito Comunista, Pietro Villani (Pètre Zecchetelle, medico e segretario del PSI cittadino), Don Custantine Serrilli, Don Ggiuuanne e Cammiscione (Nazario Bevilacqua). Esemplare in questo senso il canto “Alla travèrsa Catenèlle” nel luogo in cui vi appaiono sullo stesso piano, come in una commedia tragicomica, personaggi e demiurghi, i protagonisti che hanno fatto la storia politica del paese.

Tra i canti più curiosi anche il canto “Sacce na canzona alla travèrsa”, della sezione Canti alla rovescia che recita così “La cumpagnija sime cinque persune/lu cecate òu mettime a ffà la spija,/lu surde lu mettime annusulà,/lu cioppe lu mettime a ssuttecà/l'ome senza vracce a ccògghie pèra/e lla fèmmene alla nuda li para nzine”, un ossimoro che troviamo anche in un brano dei Festa Farina e Folk nel loro primo album.

I Canti dei soldati invece ci portano alle struggenti note degli innamorati costretti alla separazione a causa del servizio militare. Vi domina la figura del treno (“Parte lu trène tradetore” : Parte lu trène e nno mme dice addije/parte lu ninne mija alla cavalleria), “Mamma mia che treno lungo!” Oppure le struggenti melodie di “Nennella, dumane parte”, “Rosina bèlla” e “Un giorno Giulietta”, dove palpiti d'amore e sospiri languidi si confondono con le promesse e le speranze, ma anche con un pizzico di patriottismo (Dumane parte a ffà lu suleddate/ammèze e ttanta suleddate/e ccu lla spata alla cinta/e lla nnòcca tricolò).

L'ultima parte, la più copiosa, è riservata ai Canti Vari dove vi confluiscono più temi. Da “L'acqua che tte lave la matina” e “Lu scardalane” (con una foto raffigurante Francesco Perta, celebre scardalane sammarchese),- motivi tuttavia già noti negli ambienti musicali del paese - , questi canti fanno da incipit alla citazione di alcuni mestrieri in uso sino a poco tempo fa a San Marco in Lamis : lu mbrennelare, lu scarparèdde (con una foto di Giuseppe Fratino sull'imbocco di corso Giannone dove teneva bottega) e lu pecurale, lu zappatore, lu povere barbière, lu vuttajole. Nel mazzo anche la drammatica “Renèlla Ammèze lu Chiane”, concludendo con “La cestunia de Concettella”, ritornando così alla tartaruga nel punto in cui siamo partiti, anche se in questo caso la “cestunia” è di tutt'altra natura.

Grazia Galante ha compiuto un vero prodigio sul versante della ricerca sottraendo all'oblio materiale prezioso che altrimenti non avrebbe mai visto la luce. Un merito encomiabile che la pone tra le personalità più autorevoli, tra quelle che meglio hanno saputo esplorare la vasta area della cultura popolare e tradizionale della cultura non soltanto sammarchese ma dell'intero Gargano, mettendo puntualmente in campo i risultati delle sue ricerche attraverso la pubblicazione periodica di volumi che di volta in volta hanno trattato vari argomenti come racconti, giochi, cucina, fiabe, superstizioni, etc. oltre al monumentale Dizionario del dialetto sammarchese (scritto insieme al fratello Michele), sempre con rigore filologico, facendo emergere da quell'immenso deposito di cultura popolare (Saverio Russo) tutto il sapere che riguarda il nostro territorio.

Al volume hanno contribuito il M° Michelangelo Martino, che ha provveduto – come nel precedente volume – agli spartiti musicali mentre il disegnatore Giuseppe Ciavarella ha illustrato, direi magnificamente, alcuni scorci del paese, il Presidente del Conservatorio Saverio Russo, che ha curato la presentazione, e il musicista Ciro Iannacone, che ha prodotto il CD.

LUIGI CIAVARELLA







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