LA GIORNATA DELLA MEMORIA E IL RISORGIMENTO: CHE ITALIA SI VUOLE, ANCORA "IGNORANTE"?
Dal "Mattino" di Napoli di ieri, 29 agosto 2017)
di Gigi Di Fiore
Sarà stato il
caldo, sarà stato il clima vacanziero, ma per tutto il mese di agosto il
dibattito sulla proposta del M5S di istituire una giornata per la memoria sulle
vittime meridionali negli anni del Risorgimento ha impazzato, scatenando
reazioni a non finire su più giornali. Il Mattino compreso, naturalmente. E
allora, dopo averne lette davvero tante, ritorno sul tema, su cui sono già
intervenuto proprio sulle pagine del Mattino il 12 agosto. Intervengo per
tirare un piccolo bilancio personale su quanto letto in questi giorni.
Sulla giornata
della memoria e il Risorgimento sono intervenuti a più non posso docenti di
ruolo, ricercatori in cerca di ruolo, politici in stand by e politici in
attività, lettori, editori, cultori del sapere, integrati dell’interpretazione
storica (tanti) e apocalittici dissonanti o dubbiosi (pochi). Insomma, un
dibattito a più voci ed esteso. Non sarà che tutta questa passione conferma
come, sulla lettura del Risorgimento e delle sue storie, l’Italia dei
particolarismi, dei corporativismi, dei sofismi, si divide ancora?
E' probabile e la
ragione è evidente: tra i due miti fondanti (c'è anche la Resistenza) della
costruzione politica chiamata Italia, il Risorgimento pone questioni ancora
irrisolte a 156 anni dall’unificazione. Questioni e ferite aperte: il rapporto
nord-sud, le diversità culturali tra le regioni che costituiscono la nostra
nazione, le scelte politiche non omogenee tra le diverse aree, il rimpallo di
accuse sulle responsabilità dell’arretratezza e delle difficoltà del
Mezzogiorno. E si è capito che, su tutte queste questioni, la storia potrebbe
fornire ancora un orientamento per capirne di più.
E allora andiamo con ordine, riavvolgendo il nastro dall'inizio.
In più regioni
meridionali, i gruppi consiliari del M5S propongono di istituire una giornata
per ricordare le vittime meridionali del processo di unificazione (le
“annessioni” al Piemonte, come scriveva Cavour nelle sue lettere). Una
provocazione, per tentare di riaprire un dibattito sulla storia e la memoria di
quel periodo su cui, forse, la maggioranza degli italiani non ha idee chiare.
Già, perché le nozioni (con molti vuoti di memoria per carità di patria)
diffuse a scuola oggi non possono più bastare, in una nazione ormai matura dopo
156 anni, che ha bisogno di maggiore coinvolgimento e responsabilizzazione
generale che solo una conoscenza reale - non ideologica né mitologica - sulle
proprie origini può dare.
La proposta
scatena il finimondo. Il “la” parte da alcuni docenti dell’Università di Bari,
proprio la gloriosa accademia dove insegnò Tomaso Pedio che, da lassù, chissà
come guarderà a questo dibattito. Ne sono seguiti decine di schioppettanti
interventi su più giornali. Li ho riletti, scoprendo a freddo che molti
risultano in fotocopia, noiosi copia e incolla, con argomenti ripetuti, tutti
utilizzati per censurare la proposta del M5S. Perché la proposta è da bocciare?
Perché la storia devono approfondirla gli storici patentati. E poi, si sa, del
Risorgimento si conosce ormai già tutto e quel campionario di nozioni vengono
ripetute all’Università, dove però su quegli anni le ricerche nuove sono
davvero poche. Le più recenti, chissà perchè, sono nate da sollecitazioni e
stimoli offerti da pubblicazioni divulgative. E allora - ci si potrebbe
chiedere - se tutto è già noto e dibattuto, perché mantenere in vita cattedre
di storia del Risorgimento? Mistero...
Ma ricapitoliamo
le principali tesi ripetute in questi giorni.
1) Chi ha presentato la proposta è spinto da spirito neoborbonico, voglia di
ritorno al passato in una sorta di leghismo di ritorno in salsa meridionale;
2) Lo Stato autonomo e indipendente delle Due Sicilie, riconosciuto da tutte le
grandi potenze internazionali dell’epoca, era repressivo, cattivo, retrogrado,
oscurantista, e aveva bisogno di essere cancellato (con annessione allo Stato
del Piemonte, dove già esisteva un altro Sud: la Sardegna che si presentò
all’unificazione senza neanche un metro di linea ferroviaria realizzata), per
essere avviato alla civiltà e al progresso. Inutile interrogarsi su come fu
esteso il progresso nelle regioni meridionali;
3) Viene fatto un uso politico della storia, guardando al passato in maniera
strumentale e sfruttando le insoddisfazioni e i diffusi malcontenti nel Sud;
4) Bisogna guardare ai problemi di oggi, piuttosto che andare a rileggere la
nostra storia. Argomento che fa un po’ a cazzotti con il precedente;
5) Assurdo discutere sugli ideali di quell’unificazione, come del progresso e
della civilizzazione portati nel Mezzogiorno, liberato dai cattivi Borbone e
finalmente degno, con i Savoia e la classe politica della destra cavouriana, di
sedersi nel consesso internazionale del nascente capitalismo industriale.
Insomma, per farla breve, tutto è chiaro sulla nostra identità e anche sulle
frammentazioni della nostra nazione, perché quegli eventi sono ormai noti e
metabolizzati in modo chiaro da tutti gli italiani, al nord come al sud e al
centro. Tra gli italiani, non esistono più divisioni, né pregiudizi, né
prevenzioni.
Un modo di
ragionare, sintetizzato nei 5 argomenti principali estrapolati dagli interventi
di questo mese, che fa a cazzotti con le finalità culturali di ricerca,
apertura e confronto che dovrebbero essere proprie dell'accademia. La questione
vera, oltre le formulette e il tifo da stadio (Borbone-Savoia;
Garibaldi-Crocco) che non mi ha mai appassionato, è che non si tratta di
tornare indietro, non si tratta di idolatrare i Borbone, ma di capire come e
quanto le scelte politiche-economiche-militari-sociali post-unitarie segnarono
il Sud, quanto su quelle scelte sia stata responsabile la classe dirigente
meridionale, quante lacerazioni si crearono con la rivolta contadina chiamata
brigantaggio, quanto gli italiani conoscano realmente della loro unificazione
oltre le mitizzazioni e le storielle interessate.
Insomma, per
concluderla, quanto sono ancora oggi vicini o lontani agli italiani di Bolzano
con quelli di Canicattì? Non credo siano questioni chiuse, né da bestemmia
eretica. Nessuna lesa maestà al sapere e alle competenze degli storici.
Allargare il confronto, la conoscenza anche tra non iniziati e anche fuori dal
chiuso di limitate cattedrali del sapere è vero esercizio di democrazia e
arricchimento delle coscienze.
Forse c'è chi
auspica, invece, italiani sempre più distanti tra loro, frammentati,
disinformati, estranei all'approfondimento della loro storia più importante:
quella che portò le subnazioni della penisola a diventare un corpo unico
politico. E' la vera differenza, fondamentale, tra il Risorgimento e altri
periodi della storia italiana. La svolta della nostra storia contemporanea. E,
su questo, mi appare sempre più emblematico l’aneddoto ricordato da Mario
Martone nel corso del dibattito, quando ha raccontato di aver incontrato
persone convinte che Garibaldi fosse stato ferito all’Aspromonte nel 1862 non
dai soldati italiani, ma dai borbonici. Nozioni sbagliate, o radicata
prevenzione frutto di una storia insegnata per mitizzazioni e denigrazioni a
prescindere? Si vuole ancora questo tipo di conoscenza degli italiani sul
nostro Risorgimento? E, se sì, per quali interessi, per quali poteri da
preservare? Chiediamocelo, al di là della provocazione della “giornata della
memoria”.
Gigi Di Fiore